“Oggi mi assale la rabbia se penso che fin dalla prima udienza preliminare e per ben altre due volte, avevamo chiesto ai giudici di essere tirati fuori dal mastodontico processo per farci giudicare presto in altro apposito processo, per la sola ragione che mai a noi era stato contestato il reato di concorso o di disastro ambientale. Così non è stato e per ben tre volte la nostra legittima e logica richiesta fu rigettata e sono rimasto incagliato in un processo al quale non dovevo neanche partecipare. Dodici anni che sono un tempo immenso e necessario a bruciarti la vita”. Così, in un lungo post su Facebook, l’ex presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido, condannato in primo grado a 3 anni di reclusione con l’accusa di concussione (in relazione alle autorizzazioni per la gestione da parte dell’Ilva della discarica Mater Gratiae) nel processo Albiente Svenduto. La sentenza nei giorni scorsi è stata annullata dalla sezione distaccata di Taranto della Corte d’Assise d’appello di Lecce, che ha disposto la trasmissione degli atti alla procura di Potenza. “L’annullamento della sentenza – si sfoga Florido – non cancella la condanna di primo grado poiché essa era stata cancellata dalla prescrizione intervenuta ben prima del processo di appello. Nonostante ciò con i miei legali avevamo proposto appello poiché speravamo che i giudici potessero entrare nel merito della sentenza di condanna e spiegarci quale utilità avrei avuto nei presunti comportamenti concussivi, visto che i giudici di primo grado nelle motivazioni della sentenza nel riconoscermi le attenuanti generiche affermavano che le ‘meritavo’ poiché da incensurato, da ex sindacalista e da presidente della Provincia avevo agito … nella sola ragione pratica di tutelare l’occupazione dei dipendenti dell’Ilva…”. Quando bisognerà decidere nuovamente sui rinvii a giudizio, i magistrati di Potenza dovranno prendere “atto – rileva Florido – che il reato a me ascritto è prescritto” e quindi dovranno “archiviare la mia posizione. Dodici anni di sofferenza, l’onta di sette giorni di carcere e sei mesi di domiciliari. Se ciò non mi è accaduto lo devo alla mia famiglia, ai tanti amici veri che mi hanno sostenuto e ad una larghissima solidarietà umana che ho sentito verso la mia persona. Come scriveva Kafka nel processo la pena non è la pena stessa, ma la pena è il processo”.
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