CALCIO IN LUTTO: E’ MORTO EMILIANO MONDONICO

Simbolo del "Toro", ma non solo, ha lottato per 7 anni contro la malattia

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E’ morto  Emiliano Mondonico, storico allenatore dei granata negli anni ’90, che condusse il Torino fino alla finale di Coppa UEFA contro l’Ajax.

Aveva compiuto 71 anni lo scorso 9 marzo, Mondonico – nato a Rivolta d’Adda (Cremona) – resterà per sempre un simbolo del nostro calcio, amatissimo dagli sportivi. Ha lottato per 7 anni contro la malattia.
Lo diceva sempre: «Il mio miglior amico è il pallone». Emiliano Mondonico si è spento all’alba di giovedì 29 marzo a Milano, dove era ricoverato da alcuni giorni per il riacutizzarsi della malattia che lo tormentava da sette anni. 71 anni lo scorso 9 marzo, Mondonico resterà per sempre un simbolo del nostro calcio, amatissimo dagli sportivi.

Scrive “L’Eco di Bergamo”: Lo ricordiamo a Cascina Brusada, suo rifugio a Rivolta d’Adda, sempre pimpante, ciarliero, ironico, anche dopo la malattia, combattuta con forza, sempre con grande coraggio e tenacia. Il «Mondo», come lo chiamavano tutti, lascerà un vuoto incolmabile.

Giocatore prima, grande mister dopo, esperto sportivo da sempre. In veste di allenatore ha ottenuto cinque promozioni in serie A con Cremonese (1983-1984), Atalanta (1987-1988 e 1994-1995), Torino (1998-1999), e Fiorentina (2003-2004).

Proprio sotto la sua guida l’Atalanta visse la più bella esperienza in Europa, la Coppa delle Coppe 1987/88: i nerazzurri si spinsero fino alle semifinali contro il Malines. «Io sono stato allenatore 365 giorni all’anno, 24 ore al giorno – ci aveva raccontato -. Nel mio lavoro mi sono immerso in modo totale e le società che mi hanno avuto lo sanno bene: dal Toro all’Atalanta, al Napoli, alla Fiorentina e, da ultimo, anche all’AlbinoLeffe dove ho vissuto stagioni bellissime. Ho idealmente indossato le maglie delle squadre che ho allenato facendole diventare una seconda pelle. Qualche anno fa, al primo insorgere del male, mi sono fatto da parte spontaneamente, dicendo no anche a qualcuno che mi aveva cercato: avendo la testa anche su questo problema, non avrei potuto pensare totalmente al lavoro. E un allenatore al 70-80 per cento non può essere un buon allenatore».

Accanto a lui, da sempre Carla, fedele compagna di tutta la vita, le figlie Francesca e Clara, e i nipotini Lorenzo e Gaia. E poi il pallone, amico fedele: «Da quando ho cominciato a reggermi sulle gambe ho sempre avuto un pallone fra i piedi. Da bambino andavo alle elementari portandomi il pallone. I miei compagni andavano a scuola con la cartella, io col pallone. E appena tornato a casa, dopo pranzo, uscivo a dare calci al pallone sul prato dell’osteria che i miei gestivano a Rivolta. Papà allargava i tavoli e faceva spazio nel mezzo, poi si metteva in porta e io tiravo. Così fino a quando non veniva buio: soltanto allora mi ricordavo che c’era da fare anche i compiti. Il fondo di quel prato era tutto a gobbe e questo mi ha aiutato a prevedere, inseguire, domare il pallone che rimbalzava in modo irregolare da tutte le parti. I capricci del pallone sono stati fondamentali per formarmi la base tecnica individuale e aiutarmi a diventare calciatore» ci aveva raccontato ancora.

 

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