Le processioni di San Cataldo a Taranto. Ospitiamo il pensiero di Gabriella Grande, Art curator (mostre d’Arte ed eventi culturali), critica d’Arte su diverse riviste del settore, recensionista di Letteratura, blogger culturale.
C’ero anch’io, domenica sera, tra la folla, all’intempestiva ricerca di un posto a ridosso della ringhiera del Lungomare che avrebbe potuto consentirmi di assistere al passaggio del simulacro di San Cataldo sulla motonave Cheradi della Marina Militare. E mentre conquistavo il mio rettangolo di visuale, intercettavo persone che, nelle ore, avevano disegnato file di conquista di un angolo di visibilità del tratto di mare che avrebbe accolto la traversata, ed ho iniziato a chiedermi cosa fosse realmente in grado di motivare tutta quella gente, per ore ed ore in stallo davanti ad una ringhiera, in attesa? Perché questo rito del passaggio del Santo patrono rappresenta una calamita così forte? Molta della gente a cui l’ho chiesto, mi ha dato risposte che facevano capo al sentimento religioso, al Sacro che attraversa la città e le imparte la benedizione di cui sentiamo di avere tutti tanto bisogno. Quel tappeto di gente stipata come cerini nello spazio compreso tra il ponte girevole e Corso Due Mari di cui facevo parte anch’io, disegnava una croce di uomini in cui, tra il folklore e il desiderio di aggregazione, aleggiava l’urgenza di un divino che non può solo essere identificato lontano da questo mondo e dalle sue complessità, ma di cui si possa testimoniare il passaggio nelle pieghe del quotidiano, in un finito che abbia un’ora e un giorno e che sia “segno” che lasci traccia mentre ci si sente fortemente parte di una collettività ritrovata con cui ci si scambia l’immanenza nell’attesa che il trascendente l’attraversi tra gli applausi e le speranze che, in questa città, pesano come le àncore, tirate su per una sera.
Gabriella Grande