RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO un intervento di Gianluca Budano, Direttore del Consorzio Ambito Territoriale BR/3.
I più pensano che un sociale “povero” di risorse e infrastrutture (sociali appunto) renda più poveri i cittadini. Questo è verissimo, ma sfugge che c’è un’altra deprivazione che riguarda le stesse istituzioni e riguarda l’assenza di politicità del sociale che le impoverisce.
I sistemi di welfare nel nostro Paese hanno avuto nella storia connotazioni prevalentemente assistenziali e risarcitorie: contributi ad indigente, pensioni o indennità varie, integrazioni al reddito, ecc. La spesa non è stata trascurabile, al netto di fasi di compressione della stessa, abbondantemente espansa in corrispondenza dell’introduzione delle misure di contrasto alla povertà (Sia, Rei, Rdc) a cui si sono accompagnate quelle delle regioni (vedi il Reddito di dignità pugliese, tra le prime misure regionali introdotte in Italia a complemento delle casistiche non previste a livello nazionale). Possiamo dire con certezza che un problema legato alla quantità di risorse investite non c’è! La stessa certezza non possiamo avere sulla natura e sull’efficacia dell’investimento e se, investimento effettivamente è. Non voglio addentrarmi sulle proposte di miglioramento del reddito di cittadinanza, che scontano la elaborazione e conseguente concretizzazione di misure di politiche attive del lavoro da integrare alla misura assistenziale, argomento trattato comunque in precedenti riflessioni e che riprenderò in futuro. Vorrei invece concentrare l’attenzione su due evidenze: una abbastanza nota e una quasi inedita.
La prima attiene alla efficacia della spesa. La spesa sociale è utile non solo se crea sollievo, ma anche se quel sollievo è l’inizio di un processo di vero benessere duraturo per la persona umana. Da ciò discende: che ogni misura deve arrivare al bisogno di colui per cui è stata prevista (diversamente abile, povero, ecc.) e limitare il rischio delle numerose “distrazioni”, deviazioni, “malversazioni” legalizzate in favore di soggetti diversi (si veda l’assoluto disinteresse dello Stato nella fattispecie dell’indennità di accompagnamento e in tutte le misure di welfare risarcitorio, nel prevedere la garanzia che quei denari siano effettivamente utilizzati per chi ne ha bisogno, previsione che non esiste nell’ordinamento attuale); che ogni misura liberi il cittadino dalla trappola del disagio in cui è incappato e non lo abitui a curarlo facendolo assuefare al “farmaco sociale” che gli è stato somministrato. Le soluzioni tecnico legislative e organizzative per riformare il sistema di welfare nella direzione proposta ci sono: budget di cura demonetizzato, potenziamento e promozione degli istituti di tutela dei soggetti fragili (vedi amministrazione di sostegno), misure finalizzate al bisogno e non generiche, responsabilità politica comune nel sottrarre alla strumentalizzazione e al consenso le scelte di politica sociale, ampliando la separazione tra gestione e politica nei servizi sociali (una sorta di Bassanini più spinta per il settore più a rischio clientelismo e spesso terreno fertile delle infiltrazioni della criminalità organizzata). Tutto questo lo potremmo sintetizzare con un titolo, mutuato dalla medicina: il welfare di precisione.
La seconda attiene all’assenza di politicità del sociale, riferendoci: al grado di politicità che le organizzazioni del sociale (Terzo Settore in particolare) devono avere sempre di più nel rappresentare i bisogni della gente, in quanto beneficiati dal non essere partiti che devono misurarsi con il consenso elettorale; al rango politico delle scelte che attengono al welfare, che richiedono l’attenzione che la Costituzione gli ha riservato affidando ad esso la realizzazione dei diritti sociali in essa contenuti e non la mera organizzazione di un sistema di erogazione di servizi. La Riforma del Terzo Settore dlg 117/2017) ha fatto molto in questo senso, dando il “rango” ordinamentale a chi vuole svolgere per lo Stato funzioni pubbliche (principio di sussidiarietà orizzontale), al netto della lentezza nella sua attuazione, senza mortificare la libertà di associarsi sempre e comunque. Anche istituti di sussidiarietà fiscale come il 5×1000 hanno marciato in questa direzione. Ma la politicità del sociale richiede qualche passettino in più. Può essere l’idea delle Camere della sussidiarietà, da me introdotta nel 2014 nel pieno del dibattito sulla riforma costituzionale e oggetto di una pubblicazione collettanea, la strada da perseguire per evitare che l’assenza di politicità del sociale non renda povere le Istituzioni?
Le Camere della sussidiarietà furono elaborate come integrazione dei consessi rappresentativi (consigli comunali, provinciali, regionali; Camera dei deputati e Senato della Repubblica) con una rappresentanza stabile e senza diritto di voto di rappresentanti eletti, dal Terzo Settore che sceglie di perseguire l’interesse pubblico in modo strutturato, sottoponendosi al controllo pubblico in virtù della funzione che gli è assegnata (come il Codice unico del terzo settore ha previsto). L’idea è allo stato embrionale, ma la ratio che non sfuggirà al lettore semi attento, non è giunta alla maturazione giusta data la crisi evidente della partecipazione politica e dei risultati che produce?