di SILVIA RUGGIERO
Alcuni di noi hanno uno strano concetto della felicità, legato al sacrificio piuttosto che al benessere.
Mi spiego meglio: talvolta, confrontandomi nella mia vita quotidiana o all’interno dei colloqui di psicoterapia, mi accorgo che alcune persone pensano che sacrificarsi per gli altri, per i propri cari prevalentemente, sia l’unica strada possibile per avere una buona immagine di sé, per sentirsi adeguati, meritevoli di amore e di stima.
È come dire che, per fare in modo che gli altri pensino bene di noi e ci vogliano bene, dobbiamo prevalentemente farci del male, sacrificare il nostro benessere a favore del benessere degli altri.
Questo purtroppo accade molto spesso per le donne, “allevate”, cresciute con l’idea che “è giusto” occuparsi del benessere degli altri prima che del proprio. Non a caso in alcuni lavori di cura “insegnanti, psicologi, assistenti sociali etc.” le donne sono numericamente più rappresentate degli uomini.
Facciamo un esempio: se è vero che per essere felici ci dobbiamo sacrificare per gli altri (ad esempio per un figlio, un marito, un congiunto) è vero che gli altri trarranno benessere dal nostro malessere. Quindi se riflettiamo sul messaggio che diamo, ci accorgiamo che autorizziamo gli altri ad essere egoisti o a non vedere la nostra sofferenza, il nostro sacrificio, o se lo vedono, a trarne comunque benessere.
Se a questo aggiungiamo che spesso proviamo anche un senso di colpa quando facciamo qualcosa per noi, come se stessimo togliendo risorse ai nostri cari, ci rendiamo conto di quanto sia difficile uscire da questa trappola culturale.
E se invece imparassimo a volerci bene e a tutelare anche il nostro benessere? Forse chi ci tiene a noi sarebbe felice di vedere che stiamo bene e, invece di nutrire l’egoismo, nutriremmo le capacità empatiche dell’altro.