Riceviamo e pubblichiamo un intervento sul futuro dell’ex Ilva di Francesca Irpinia, componente del Consiglio Nazionale di Articolo 1.
Nel melodrammatico quadro politico del Paese Reale, tutte le vicende connesse allo stabilimento dell’acciaieria di Taranto assumono straordinari caratteri simili a quello che è il Best seller d’eccellenza della metà del 900 italiano, il gattopardo.
Tra i drammi del nuovo governo a guida Giorgia Meloni, invadono prepotentemente la scena, i dossier delle partecipate statali. Ilva è solo la quintessenza dei capitoli targati RAI, MPS, ITA AIRWAYS, CDP EQUITY, CDP RETI, TIM, FERROVIE, AUTOSTRADE. Un governo che sfida contemporaneamente Centauro, Minotauro, Sfinge, Chimera e Unicorno.
Tramontata l’era della politica industriale a stampo fordista, in cui la classe operaia riconosceva il suo status rappresentato dal partito comunista, quel che nel tempo è rimasto di quell’impianto è l’atomizzazione delle classi e lo sfascio della politica del centrosinistra che non solo non viene piu’ riconosciuta dall’esterno ma all’interno soffre di gravi problemi d’identità. Questo fattore ha confermato l’inadeguatezza di un’intera classe dirigente che negli anni non ha colto le profonde trasformazioni e accelerate tecnologiche come preludio a quelle enormi sociali che ne sarebbero conseguite. Come non c’è bisogno di Galileo Galilei per guardare con il cannocchiale le stelle, non occorre essere Karl Marx per capire che ad ogni salto tecnologico la classi e i modelli sociali mutano e per governare il cambiamento c’è bisogno di politiche radicali, strutturate e lungimiranti. Insomma, una politica di segno molto diverso a quella di un centrosinistra appiattito sulle posizioni delle visioni liberiste e della menzogna piu’ grossa di tutte e cioè che i mercati si autoregolano. Piu’ che altro ad autoregolarsi sono stati solo gli investitori privati, Taranto è solo l’esempio piu’ eclatante. Quei privati sempre grati all’arroganza di una classe dirigente che ancora oggi, disgraziatamente, pensa ad autodefinirsi top manager dell’azienda Italia, l’establishment. Gli stessi dirigenti imperterriti continuano a sfasciare il mondo del lavoro e della produzione nel Paese della manifattura per tradizione, nel Paese in cui trasformare le materie prime che non abbiamo è eccellenza riconosciuta a livello globale, nel Paese in cui il made in Italy non lo hanno mica inventato i top manager.
Oggi il dato piu’ significativo è che anche il potere dell’antipolitica purtroppo non è esaurito, o ridotto a lumicino.
L’antipolitica rappresenta un’ideologia alimentata da due sentimenti contrastanti all’apparenza: l’indignazione e il rancore. Ed è proprio l’antipolitica che si è affermata in tutte le declinazioni di popolarità, sulle macerie di quello sfacelo che è stato l’assunto politico degli eletti, del mantra il mercato si autoregolamenta, che non trovavano giustificazioni razionali al fallimento e alla sconfitta dopo che seguivano le teorie di Smith ( ammesso e non concesso che le abbiano comprese).
Esiste l’antipolitica del disilluso, dell’impolitico, del semplicista e dell’opportunista. Insomma ve n’è per tutti i gusti. Ne era evidente già dalle elezioni politiche del 2017 quando, con strafottenza e sorriso sardonico, Grillo definiva lo stabilimento di Taranto come “archeologia industriale, dobbiamo fare un enorme parco giochi”. Quel che è ne stato poi di manager defenestrati per rendite di posizioni strettamente particolari, vendite straordinarie, piani ambientali, piani industriali, svariate centinaia di CIG, e quant’altro è solo l’operazione di rattoppo e rammendo di una coperta costituita dal qualunquismo seguendo l’antico adagio “In Franza o Spagna purché se magna”.
Negli anni è cresciuta la tendenza a fare politica e a conquistare il potere mediante l’antipolitica. Impianto molto seducente dal punto di vista elettorale, perché si basa su un presupposto psicologico accattivante: la colpa di qualsiasi problema è sempre degli altri o di qualcuno che si colloca all’esterno del recinto della nostra vita, in sostanza strutturalmente deresponsabilizzante. Abbiamo avuto l’uomo manager, l’uomo giustiziere, l’uomo avvocato del popolo, la donna di polso, la donna femminista, una sequela piu’ che di politici, di personaggi da scritturare come protagonisti di una nuova serie televisiva, alla corte del mainstream. Il corto circuito ILVA è figlio di questo, e se qualcuno non riesce a guardare oltre la solita paventata cortina e ormai sbiadita dicotomia “lavoro-salute- ambiente” è semplicemente galvanizzato dalla polarizzazioni del dibattito che non guardano alla pluralità, alla complessità strutturale del problema ma solo alla sineddoche, alla parte per il tutto, perché per ricostruire ci vuole umiltà, responsabilità, identità, competenza e senso di Cooperazione. E soprattutto sentimenti opposti alla blasfemia del leaderismo politico. La buona notizia è che si fa sempre in tempo a cambiare e a rigenerarsi, il dato che non è rinvenuto è il quando. Non c’è ancora data definita e appare ancora molto lontana se si continua a parlare per personaggi, slogan, recinti, in definitiva per stereotipi. L’antipolitica industriale ha ridotto l’Ilva a scheletro.
Viste le condizioni l’Ilva è già abbondantemente una bomba sociale, come faranno a sopravvivere al caro autunno tutti i cassaintegrati è la gatta da pelare piu’ grossa della Meloni. La situazione a Taranto è esplosiva, e visto che non bastava il mastodontico problema sociale, si aggiunge il problema della sanità che non riesce a rispondere a tutte le emergenze di un territorio che negli anni è stato martoriato.
Sapranno gli eletti in parlamento del collegio di Taranto rappresentare e porre rimedio in somma urgenza a questi problemi? Speriamo che ciò avvenga per il bene di tutti.